La deterrenza non è una vittoria
Il report del viaggio in Ucraina della Delegazione del MEAN
𝒅𝒊 𝑨𝒏𝒈𝒆𝒍𝒐 𝑴𝒐𝒓𝒆𝒕𝒕𝒊
Avevamo iniziato da un’oretta il nostro piccolo summit tra società civile ucraina e società civile italiana per parlare di nonviolenza, di difesa, di quale vittoria potrebbe essere possibile per le parti, all’interno di una saletta molto confortevole messa a disposizione da 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐞 𝐈𝐡𝐨𝐫, affabile direttore del seminario greco cattolico di Leopoli, il clima era così disteso e sincero che non ho avuto remore a fare la domanda che mi scava il cervello da settimane: 𝑂𝑟𝑒𝑠𝑡 𝑚𝑎 𝑠𝑒 𝑖𝑙 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑙𝑖𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑜𝑣𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑎𝑟𝑟𝑖𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑑 𝑢𝑛𝑎 𝑒𝑠𝑐𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛, 𝑓𝑖𝑛𝑜 𝑎𝑑 𝑢𝑛𝑎 𝑣𝑒𝑟𝑎 𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑎 𝑔𝑢𝑒𝑟𝑟𝑎 𝑛𝑢𝑐𝑙𝑒𝑎𝑟𝑒, 𝑛𝑜𝑛 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑙 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑔𝑢𝑒𝑟𝑟𝑎 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑐𝑜𝑛𝑓𝑖𝑡𝑡𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖?
«Per noi non cambia nulla, morire sotto le bombe normali o sotto le bombe nucleari… che differenza c’è?», risponde con un largo sorriso questo docente universitario del politecnico di Leopoli che sprizza energia vitale da ogni poro.
La risposta non è affatto scontata e tutte le teorie sull’equilibrio della deterrenza atomica crollano in un secondo, deflagrano sotto una considerazione banale ma efficace.
Come la morte venga inflitta non conta per chi la subisce, ciò che conta per quella porzione di mondo ucraino che abbiamo ascoltato per un giorno intero, come delegazione del progetto MEAN, è che sia chiaro al mondo che da questa guerra non si torna indietro: «Non torniamo indietro di quattrocento anni», ha detto infatti una studentessa a 𝐆𝐥𝐨𝐫𝐢𝐚, consacrata del Movimento dei Focolari ed insegnante. «L’ucraina preferisce morire ma non tornare sotto il dominio dei russi», le ha detto la ragazza, rinunciando alla sua carriera brillante all’estero per unirsi alla resistenza.
Nelle piazze di tutte le città, gli abitanti del “granaio di Europa” tengono esposte in un moderno mausoleo le foto dei cento attivisti della rivoluzione di piazza Maidan, uccisi dal loro stesso esercito. Quando gli ucraini hanno sospettato che il loro premier di allora, Januković, stesse flirtando con Putin, come già era accaduto in Bielorussia, e che tergiversasse troppo sulla domanda di ingresso alla UE, gli ucraini sono scesi in piazza ed hanno resistito da novembre 2013 a febbraio 2014, sopportando la morte di decine dei loro studenti pur di affermare una volontà diversa dal loro governo.
Erano sostenuti abilmente dalle forze occidentali? Molto probabilmente sì, sicuramente sì, ma tutti oggi rivendicano e celebrano i rivoluzionari di piazza Maidan, dal prete al chirurgo al docente universitario alla studentessa, con diverse idee politiche di appartenenza. E questo è un fatto.
Ora sono pronti a tutto per difendere la memoria di quei ragazzi.
𝐈𝐠𝐨𝐫, medico chirurgo, è particolarmente arrabbiato con quel venti percento di popolazione russa che i sondaggi dicono non siano allineati con Putin: «Se è vero che esistono sono circa ventotto milioni di persone: come è possibile che non siano capaci di imporre la loro volontà come abbiamo fatto noi nel 2014? O non esiste questo venti percento o sono colpevoli come gli altri», sentenzia.
Ma la nonviolenza può esistere in questo contesto? Padre Ihor ne è convinto: «Noi vogliamo la pace, noi preghiamo per la pace tutti i giorni, siamo contro la guerra, ma finché i russi ci sparano addosso non so come si possa fare avanzare la nonviolenza, solo l’esercito può difenderci». I negoziati? «Mia nonna mi diceva sempre: ricordati di non fidarti mai dei Russi», racconta con tenerezza il rettore del seminario, che ci ha ospitato con un garbo ed una disponibilità al dialogo straordinari.
𝐃𝐨𝐧𝐚𝐭𝐞𝐥𝐥𝐚 del movimento dei Focolari, venti anni di permanenza in Russia e da tre anni a Kiev, prova ad aprire un dubbio su questa diffidenza, parla dei tanti russi che non possono più manifestare, ma che vorrebbero farlo. Igor storce il naso e sottolinea che in Germania ci sono russi liberi da Putin che hanno sfilato a favore della guerra.
Nel pomeriggio conosciamo la vicesindaca di Birbka, villaggio ad est di Leopoli, a capo di un distretto di 18 mila abitanti e con 1800 profughi accolti. 𝐎𝐱𝐚𝐧𝐚 ci racconta con grande entusiasmo e tanti dettagli l’impegno del suo comune per i profughi e scopriamo di essere in un Piccolo Comune del Welcome, dove i rifugiati hanno dato nuova vita alla villa comunale e tutto il paese è coinvolto nelle attività di accoglienza. Ascoltiamo la storia di 𝐍𝐚𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚, la sua testimonianza dall’infermo del teatro di Mariupol sembra sbarrare in modo definitivo la strada del dialogo.
Natalia e suo marito sono andati via un giorno prima da quel maledetto teatro in cui hanno trovato la morte seicento ucraini. «I Russi prima ci hanno indicato dei corridoi verdi per poter abbandonare Mariupol con le nostre auto – racconta – poi ci hanno sparato contro, costringendoci a trovare rifugio in quel teatro. Poi per dieci giorni abbiamo vissuto gli uni addosso agli altri, arrivando a non avere più acqua e cibo, i bambini si ammalavano…abbiamo deciso di fuggire con la nostra auto a tutta velocità ed ora abbiamo trovato rifugio qui a Birbka». Il pensiero di Natalia va tutto a quei poveri ragazzi del battaglione Azov «che stanno combattendo per noi e che adesso sono sotto attacco in quella acciaieria». Natalia sembra parlare di suoi nipoti e deve essere abituata a leggere dentro le contraddizioni che gli altri vedono: ha settanta anni e racconta di come i russi siano peggio dei nazisti, perché i nazisti uccidevano e deportavano, i russi uccidono, deportano e stuprano anche.
Si torna al pragmatismo di Orest: non contano le qualità morali di chi ti difende, non conta se la NATO difende i suoi interessi o se l’Europa si è svegliata troppo tardi per convinzione o per obbedienza alla alleanza atlantica, il male minore per gli ucraini resta la difesa ad oltranza dagli invasori russi.
𝐂𝐡𝐞 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐩𝐨𝐭𝐫𝐞𝐛𝐛𝐞 𝐟𝐚𝐫𝐞 𝐥’𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐚 𝐩𝐚𝐜𝐢𝐟𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐢𝐧 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨?
𝐇𝐚 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨 𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐢 𝐧𝐨𝐬𝐭𝐫𝐢 𝐜𝐨𝐫𝐩𝐢 𝐝𝐢𝐬𝐚𝐫𝐦𝐚𝐭𝐢 𝐢𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐥 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐞𝐬𝐭𝐨?
𝐂𝐞 𝐥𝐨 𝐬𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐝𝐨𝐦𝐚𝐧𝐝𝐚𝐭𝐢 𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐯𝐨𝐥𝐭𝐞 𝐭𝐫𝐚 𝐧𝐨𝐢 𝐢𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚𝐧𝐢, 𝐞𝐩𝐩𝐮𝐫𝐞 𝐜𝐢 𝐞𝐫𝐚 𝐜𝐡𝐢𝐚𝐫𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐭𝐫𝐚 𝐥𝐞 𝐩𝐚𝐫𝐨𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐩𝐢𝐞𝐭𝐫𝐚 𝐞 𝐝𝐢 𝐝𝐨𝐥𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐜𝐡𝐢 𝐡𝐚 𝐥’𝐮𝐧𝐢𝐜𝐨 𝐨𝐛𝐢𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐨 𝐝𝐢 𝐫𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐫𝐞 𝐟𝐢𝐧𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐯𝐢𝐭𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚, 𝐬𝐢 𝐬𝐭𝐚𝐯𝐚𝐧𝐨 𝐟𝐚𝐜𝐞𝐧𝐝𝐨 𝐬𝐭𝐫𝐚𝐝𝐚 𝐧𝐮𝐨𝐯𝐞 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐬𝐭𝐚𝐯𝐚𝐧𝐨 𝐞𝐦𝐞𝐫𝐠𝐞𝐧𝐝𝐨 𝐩𝐫𝐨𝐩𝐫𝐢𝐨 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐨 “𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐚𝐜𝐜𝐚𝐧𝐭𝐨” 𝐠𝐥𝐢 𝐮𝐧𝐢 𝐚𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐢, 𝐧𝐨𝐧 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐬𝐮𝐢 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥 𝐨 𝐢𝐦𝐩𝐫𝐞𝐜𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨 𝐮𝐧𝐚 𝐭𝐯 𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐫𝐢𝐬𝐩𝐨𝐧𝐝𝐞, 𝐦𝐚 𝐫𝐢𝐬𝐜𝐡𝐢𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐢𝐧𝐬𝐢𝐞𝐦𝐞 𝐥𝐢̀, 𝐢𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐥 𝐦𝐨𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨.
Igor era il più determinato nelle ragioni prioritarie della difesa armata eppure si è dichiarato disponibile, a fine giornata, a vagliare le occasioni che un movimento europeo nonviolento avrebbe potuto portare nella ricerca della pace, alla forza che la nonviolenza potrebbe avere per chiedere negoziati efficaci. Questo straordinario chirurgo volontario, che da tre giorni non dorme per mettere in salvo vite da evacuare e offrire assistenza ai militari, dice che 𝐮𝐧𝐚 𝐦𝐚𝐧𝐢𝐟𝐞𝐬𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐬𝐬𝐞 𝐜𝐨𝐢𝐧𝐯𝐨𝐥𝐠𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐞𝐭𝐚̀ 𝐜𝐢𝐯𝐢𝐥𝐞 𝐫𝐮𝐬𝐬𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐯𝐢𝐯𝐞 𝐢𝐧 𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐚 𝐩𝐨𝐭𝐫𝐞𝐛𝐛𝐞 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧𝐚 𝐛𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐨𝐜𝐜𝐚𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐮𝐧𝐢𝐫𝐞 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐢 𝐜𝐨𝐥𝐨𝐫𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐯𝐨𝐠𝐥𝐢𝐨𝐧𝐨 𝐥𝐚 𝐩𝐚𝐜𝐞. 𝐈𝐥 𝐬𝐨𝐠𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧𝐚 𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐧𝐨𝐧𝐯𝐢𝐨𝐥𝐞𝐧𝐭𝐚 𝐝𝐢 𝐦𝐚𝐬𝐬𝐚, 𝐞𝐮𝐫𝐨𝐩𝐞𝐢 𝐞𝐝 𝐮𝐜𝐫𝐚𝐢𝐧𝐢, 𝐬𝐢 𝐟𝐚 𝐬𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨 quando arriva il tramonto, non a sostituire la resistenza ma come nuova forza trasformatrice per provare anche l’impossibile in un momento in cui ciò che sembrava impossibile fino al 23 febbraio è già accaduto.
Nella serata andiamo alla scoperta di Leopoli, città incantevole fatta di più città: quella ebrea, quella cattolica, quella ortodossa, quella armena. Ci fermiamo in un Pub, con 𝐓𝐚𝐫𝐚𝐬, zoologo ed attivista di Acr For Ukraine, si discute di una delle attese più importanti dopo la pace: la fine della corruzione e di quanti morti ancora si possono sopportare prima di trovare una soluzione. Orest ci raggiunge al Pub e sogniamo insieme una rete di universitari per la pace, che pensino a nuove forme e nuovi metodi per far avanzare il dialogo tra le parti avverse.
Padre Ihor ci accoglie con le sue braccia larghe al rientro, quando è sera inoltrata, ci avvisa che la mattina all’alba verrà con noi alla frontiera per rientrare in Europa «così possiamo continuare a parlare».
La notte le sirene antibomba interrompono le poche ore di sonno che avevamo a disposizione, ci avvisano che c’è in giro la minaccia di un missile nella regione di Leopoli, padre Ihor ci aveva mostrato il rifugio e ci ritroviamo solo gli italiani, decidiamo di trascorrere lì tutta la notte.
Per i circa duecento ospiti del convento quel suono è ormai familiare come il verso di un gufo tra gli alberi ed ogni notte scelgono se dargli retta o meno. È solo un falso allarme, ma quel suono ti scava dentro.
È ancora buio quando partiamo verso la Polonia, sta volgendo al termine il nostro piccolo incontro di due giorni per far partire il progetto MEAN.
Padre Ihor come sempre ci segue in tutto con un garbo ed una cura straordinari. In macchina mi viene naturale scusarmi per essere venuti in questa occasione “solo a parlare” e non portando ancora niente di concreto, ma il sacerdote, dal fusto elegante e l’italiano perfetto, ci sorprende: «Siete venuti qui, con il vostro corpo, per stare accanto a noi, e per noi questo è importantissimo, vale più di ogni cosa».
Si è fatta alba e siamo arrivati alla frontiera.
Ci salutiamo con la promessa di tornare presto per avviare la nostra azione, partita ufficialmente in questi giorni.
Grazie a tutte e a tutti voi per avere seguito il nostro viaggio
Per partecipare alla mobilitazione Nonviolenta in Ucraina del Progetto MEAN, iscrivetevi qui:
www.projectmean.it