In Ucraina con gli ucraini e l’arma dei forti, la nonviolenza
di Marianella Sclavi
L’iniziativa che ha l’acronimo MEAN (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta), ha preso il via dalla constatazione che i segnali di una società civile europea, a partire proprio da quella ucraina, in grado di fare da starter per un tale processo, ci sono, numerosi, coraggiosi, scalpitanti di volontà di contare ed essere ascoltati. È a partire da questo che è venuto in mente ad alcuni di noi di allestire, in collaborazione con le iniziative della società civile ucraina, una specie di “invasione” pacifica, nonviolenta, ma di massa
Con l’attacco a Leopoli è chiaro a tutti che ci troviamo, non solo, di fronte ad una ennesima strage di civili della martoriata terra Ucraina ma che quegli “spari sopra sono per noi”, come direbbe Vasco. I missili cadono ormai a poche decine di chilometri dalla Polonia, i dissidenti russi sono stati fermati e da settimane se ne hanno sempre meno notizie, come accadeva ai tempi dei gulag. Gli oligarchi russi ed i loro asset finanziari e patrimoniali hanno scoperto di essere ben accetti in India e non solo. Poco più di una settimana fa la Russia è stata esclusa dalla Commissione ONU per i diritti umani, ma contro i 93 della maggioranza a guida occidentale si sono schierati gli stati più potenti dell’Est e del Nord Africa, compresa la Algeria da cui oggi elemosiniamo un po’ di gas a buon mercato. Non sono poche le testimonianze che arrivano dal continente africano che dicono come molti paesi tendano più a schierarsi con uno Zar che difende la famiglia tradizionale piuttosto che con quella parte del mondo che viene percepita ancora come appendice dell’ “impero degli yankee”. Se la strada della guerra dovesse essere percorsa ancora in questa “linearità”, non è affatto escluso che con un bombardamento più ad ovest di pochi chilometri, che superi la linea di confine di Medyka, ci si risvegli nel centro di un conflitto mondiale in corso, i cui pezzetti che avevamo tenuto astutamente separati diventino blocchi di una guerra “tradizionale”.
Di fronte a questo scenario cosa può fare il popolo della nonviolenza attiva? Che potere hanno i nonviolenti per interrompere questa linearità di escalation? Ghandi fu molto chiaro rispetto alla necessità di essere coraggiosi più che nonviolenti, sul giornale Young India nel 1920, scrisse espressamente che tra “codardia e violenza”bisognava scegliere la seconda. Poi però aggiungeva “Ma la nonviolenza è infinitamente superiore alla violenza.” Il problema non era solo nel merito morale, ma anche nel metodo pratico. «Dunque io non sostengo che l’India deve praticare la non-violenza perché è debole – scriveva il Mahatma – Voglio che essa pratichi la non-violenza cosciente della propria forza e della propria potenza». E nello stesso articolo fu ancora più esplicito: «Noi in India prima o poi comprenderemo che non è possibile che centomila inglesi incutano timore a trecento milioni di esseri umani. E il perdono significherà il riconoscimento della nostra forza». Gandhi non osava affatto chiedere ai suoi di perdonare gli inglesi violenti, mentre la violenza era in corso, ma chiedeva ai suoi di “contarsi”. Contarsi come numero concreto e come forza interiore.
Qualche anno dopo un teologo protestante Bonhoeffer, nel discernimento interiore sulla necessità di provare a fermare fisicamente gli assassini del regime nazista, ebbe a dire: «Chi parla di soccombere eroicamente davanti ad un’inevitabile sconfitta, fa un discorso in realtà molto poco eroico, perché non osa levare lo sguardo al futuro. Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene”. Il tema di Bonhoeffer non era la vittoria di sangue sui nazisti, ma la necessità che il futuro avesse una chance diversa rispetto alle guerre. Per esercitare questa responsabilità non bastavano le idee, bisognava metterci il corpo. “Noi non siamo Cristo, ma se vogliamo essere cristiani, dobbiamo condividere la sua grandezza di cuore nell’azione responsabile, che accetta liberamente l’ora e si espone al pericolo, e nell’autentica compassione che nasce non dalla paura, ma dall’amore liberatore e redentore di Cristo per tutti coloro che soffrono. Attendere inattivi e stare ottusamente alla finestra non sono atteggiamenti cristiani. I cristiani sono chiamati ad agire …».
Ottanta anni dopo le lettere dal carcere del teologo tedesco, raccolte in “Resistenza e Resa”, i pacifisti attivi, coloro che credono che la pace che si costruisce rinunciando alle armi ma non alla lotta, e che tra oppressi ad oppressori scelgono sempre la parte degli oppressi, si sono dati appuntamento, perchè non vogliono restare alla finestra mentre il mondo si prepara ad un conflitto che potrebbe essere apocalittico.
Alla vigilia della Marcia della Pace straordinaria di Perugia-Assisi (a cui oggi hanno partecipato, nella foto), in trentacinque organizzazioni si sono ritrovate ieri a a Roma, nella sede del CSV Lazio, laici e cattolici, cooperanti ed operatori sociali, con il compito di scegliere quali strade percorrere per far sentire la voce di un’Europa diversa, che non si ferma solo al finanziamento della resistenza ucraina ed alle sanzioni, ma che intende fare avanzare un’azione nonviolenta per le generazioni future, a partire da un corpo di migiaia di europei che potrebbero raggiungere l’Ucraina in carovana per creare spazi di dialogo e per evacuare i civili e ridurre il potere di morte dello Zar, uno zar che non ha più futuro. Egli potrà magari vincere la battaglia sul campo, ma non la guerra, se questa fosse esercitata da una forza nonviolenta in cui si potrebbe ricostituire il popolo europeo e la sua millenaria spiritualità.
Accanto a questo c’è stata la mobilitazione di migliaia di associazioni e persone singole che stanno operando per dare assistenza con cibo e medicinali a chi rimane e fare da ponte per i profughi, da Odessa a Leopoli, un po’ in ogni dove, dentro e fuori il territorio aggredito. Il rischio è che tutte queste reti di solidarietà, questa mobilitazione della società civile, rimangano sparpagliate, e vengano percepite come un surrogato benevolo della guerra, ridotte a un evento collaterale della unica vera protagonista che è la guerra.
Ma la nonviolenza che viene praticata in modo così diffuso ed esteso non è solo non-guerra, sta mettendo in atto pratiche e saperi che devono avere una presenza al tavolo dei negoziati e negli incontri e sessioni che li preparano e accompagnano. Proprio se si vuole evitare il dopo Versailles e il dopo Dayton.
È a partire dalla esigenza di far fare a questa utopia concreta in atto un salto di presenza e protagonismo corale, collettivo, che è venuto in mente ad alcuni di noi di allestire, in collaborazione con le iniziative della società civile ucraina, una specie di “invasione” pacifica, nonviolenta, ma di massa, nel territorio dominato in questo momento dalla devastazione bellica. Con l’idea che a uno che cammina per strada puoi sparare, a migliaia di persone riprese in tempo reale da tutti i media disponibili, è oggettivamente più difficile (L’ombra ed eredità della marcia della pace organizzata da don Tonino Bello a Sarajevo nel 1992, è di conforto..).
Ma l’elemento in assoluto più vitale che ci ha spinto a lanciare questa iniziativa è aver constatato quanto sia oggi diffusa nelle società civili europee una esigenza e consapevolezza che Gandhi è riuscito a sintetizzare meglio di altri: “Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fin tanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.”
Tanta è la gente che ho incontrato in questi tempi a cui questa guerra appare insopportabile, non per una questione di armi sì o armi no, ma perché puzza di ipocrisia lontano un miglio. E poiché “La nonviolenza è l’arma dei forti”, almeno grazie a lei ci possiamo mettere in gioco personalmente e non limitarci a fornire le armi ad altri perché vincano e/o muoiano al posto nostro.
*Marianella Sclavi ha insegnato Etnografiaurbana, Arte di ascoltare e Gestione creativa dei conflitti al Politecnico di Milano e collabora da anni a progetti di risanamento dei quartieri in crisi. È membro della Fondazione Alexander Langer di Bolzano e si è occupata dei processi di ricostruzione e gestione creativa dei conflitti in Kosovo e Palestina/Israele.
Tra i suoi libri: Confronto creativo: dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati con Laurence E. Susskind, Milano, Et-al Edizioni, 2011; Costruire la pace. Volume primo – L’antica grecia: Atene, Melo e le guerre del Peloponneso; a cura di M. Sclavi; IPOC, Milano 2014; “La scuola e l’arte di ascoltare. Gli ingredienti delle scuole felici” (con Gabriella Giornelli, Feltrinelli 2019)
