(di Giovanna Grenga Kuck, cabina di regia MEAN)
A Roma oggi è la festa dei santi patroni Pietro e Paolo; noi siamo alla periferia di Cracovia dove sostiamo con due autobus nel parcheggio di un motel, in attesa che arrivi il segnale dagli amici ucraini partiti con due pullman da Kiev questa mattina, appena il coprifuoco lo ha consentito. Sono madri, bambini e ragazzi, diretti a Medyka, cittadina del Sud-Est polacco al confine con l’Ucraina; uno dei sette valichi di frontiera attraverso cui, secondo una stima dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono passati buona parte dei profughi di guerra arrivati nell’Unione Europea.
Abbiamo lasciato Benevento la notte del 28 giugno, siamo entrati in Austria da Tarvisio, abbiamo attraversato la pianura del Danubio, poi le colline della repubblica Ceca e parte della Polonia meridionale. Gli autisti campani sono esperti, conoscono l’itinerario, sono cordiali con il piccolo equipaggio: Tetyana e Oksana, le interpreti, il sensibile ed eccellente fotografo Luca Danieli che documenta il viaggio. Per iniziativa del MEAN (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta) e dei Piccoli comuni del Welfare accompagneremo in luoghi di mare e di collina le madri e i bambini della regione di Kiev. Desideriamo offrire, a chi non ha voluto o potuto lasciare il paese, la possibilità di allontanarsi per qualche tempo dal suono delle sirene, degli allarmi, tornare a una quotidianità non sottoposta al coprifuoco.
In questa attesa siamo tutti sul confine: u okraina espressione dello slavo antico che significa vicino al limite, al bordo. L’attesa ci unisce e ci raccontiamo i confini della nostra vita. Stare in questo luogo così vicino al sistema concentrazionario di Auschwitz Birkenau ci fa riconsiderare le nostre vicende o, con le parole di Primo Levi, “il tempo che ci è dato in sorte”. Superare i confini è necessario, superare i confini ostacolo alla fratellanza umana, alla conoscenza reciproca, all’incontro che cambia. La guerra invece è invasione, rapina, oltraggio alla terra che i padri hanno coltivato per i figli. In questo tempo sospeso di attesa leggo le date di nascita delle madri che oggi accoglieremo; hanno l’età dei miei figli.
Ci dà forza la vicinanza delle associazioni in questo progetto, i messaggi che riceviamo. Un medico pediatra, il dottor Arigliani, si è collegato con noi ieri, mentre eravamo in viaggio, con qualche difficoltà per le frequenti gallerie, cercando ancora la linea ogni volta che cadeva. Avevamo bisogno di conferme sulla nostra capacità di avvicinarci a chi da mesi vive nella tensione degli allarmi, la pena per amici e parenti al fronte, prepararci alle reazioni, forse difficili, dei bambini.
Dedichiamo attenzione a suddividere sui due pullman le scorte di cibo; ci saranno durante il viaggio piccole soste di ristoro. Ci aspettano ore di autostrada prima di tornare nel Sud della penisola e in Sicilia. “Che il signore vi protegga andando e tornando” è il messaggio che arriva da Gerusalemme al mio cellulare.
Con le due interpreti, espressione dell’Italia giovane, ricca di pluralità e lingue, abbiamo pensato ai canti per il tempo del viaggio. “Com’è bello quando i fratelli stanno insieme” sono le parole del salmo 133, scopriamo di conoscerne diverse melodie, in latino, in ebraico.
“La generazione nata in Italia negli anni 50 ricorda ancora i racconti di guerra” dicono gli autisti, io ricordo i racconti del nonno, della Prima guerra mondiale, quelli di uno zio paterno, tornato malato e afflitto dall’internamento militare nel 1946. Ho avuto i racconti di mio padre e mia madre, per mesi con gli sfollati di guerra che raggiunsero i piccoli paesi montani, del Lazio meridionale, dove vivevano da ragazzi. Più tardi e in altra lingua i racconti dei miei suoceri, evacuati dall’Armata Rossa, insieme al loro villaggio quando erano appena adolescenti. Erano tedeschi baltici, furono deportati nella Polonia occupata o molto lontano all’interno del territorio sovietico fino alle miniere del Caucaso come lavoratori schiavi. Ho condiviso amicizia e affetto con i deportati razziali della città in cui ho vissuto per lavoro, Roma, tanto violata dalla guerra. Riflette il più anziano degli autisti: “Abbiamo conosciuto gioie e sofferenze, anche lutti, che ci raccontiamo in questa attesa ma la certezza delle nostre vite era stata a lungo che il male estremo della guerra non doveva più essere, non qui, non in Occidente”.
Mio nonno mi ha insegnato, senza sapere, la nonviolenza; me l’ha insegnata con i suoi racconti di ufficiale medico veterinario in quella guerra di trincea lunga quattro anni dove ha conosciuto impotente la sofferenza degli uomini, degli animali e la violenza sulla natura. Molti anni dopo con gli scritti di Gandhi, lo studio dei grandi maestri della nonviolenza, con l’amicizia, e l’esempio, di Alexander Langer ho appreso quella prassi e le scelte etiche che comporta.
L’ attesa di poter partire anche noi da Cracovia verso Medyka si carica ora del timore per i bambini e le madri in viaggio lungo le strade ucraine, stanno percorrendo adesso i territori da cui non si riceve segnale.
La tragedia delle donne in questa guerra ricorda gli stupri delle donne in Germania da parte dei soldati sovietici durante la Seconda Guerra Mondiale, moltissimi a Berlino e alle donne dimenticate dalla storia, le “marocchinate”, stuprate dai soldati nel maggio del 1944, impegnati lungo la linea Gustav che divideva in due l’Italia. Anche allora le autorità militari non potevano non sapere di quali crimini orrendi si stessero macchiando i goumiers.
La popolazione di quei borghi poveri del basso Lazio non seppe riconoscere come vittime i bambini nati dagli stupri, così visibili per i loro tratti. Per quelle donne violate, impure secondo un codice antico e crudele, non c’è stata la pietà che seppure molto tardi (e qualche volta con la necessaria ammissione di collaborazionismo) abbiamo saputo esprimere come Italia democratica verso i perseguitati razziali.
Tutto questo torna alla mente perché la guerra non finisce mai, il male compiuto con il sangue versato grida, grida sempre. L’espiazione non ha fine se non trova risposte di riparazione, riconciliazione, risanamento, perdono; a mani nude il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta ci prova.
È il momento di partire, ci hanno contattato dall’Ucraina, anche loto stanno adesso a poche ore da Medyka. Trovo altri messaggi di amici sul mio cellulare, la loro disperazione o speranza in questi giorni. “Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,10).