Un percorso di ricerca e confronto che si basa su una duplice urgenza, perfettamente descritta da Marianella Sclavi, una delle principali animatrici del progetto. Dobbiamo sentirci tutte e tutti coinvolti da un conflitto che a poche centinaia di chilometri dall’Italia e nel dell’Europa da più di centocinquanta giorni terrorizza, colpisce e uccide la popolazione civile ucraina, sotto scacco di una ingiustificabile aggressione. Essere presenti a Kiev l’11 luglio ha significato prima di tutto questo.

” Per sentirci e agire in modo umano serve il contatto, la presenza in comune” ci ha ricordato Angelo Moretti, altra anima ispiratrice di questa concreta e visionaria esperienza.

Contestualmente dobbiamo essere consapevoli che rompere il silenzio che stava calando attorno alla guerra – in una caldissima e faticosa estate, dove le crisi globali si sommano e moltiplicano – presuppone l’idea di coltivare e sperimentalre l’ambizione di essere con i propri corpi innesco di iniziative non violente ( di diplomazia e cooperazione, di confronto e di mobilitazione popolare) che affianchino, indeboliscano e, il prima possibile, sostituiscano il linguaggio della guerra e delle armi, oggi predominante.

Le notizie e le immagini (terribili) ci raggiungono attraverso i canali social, dalle pagine – non più le primissime – dei quotidiani, dai messaggi delle altre carovane umanitarie presenti.

C’è un valore aggiunto importante nella presenza del Mean a Kiev che sta nella capacità di esprimere e praticare uno sguardo multilivello nell’analisi del contesto e nella scelta d’intervento da mettere in campo. C’è il piano della solidarietà diretta, fatta di aiuti materiali (alle famiglie e alle comunità, in loco e tramite iniziative di accoglienza e supporto alle popolazioni in fuga) e di progettualità di breve/ medio termine, cosi come abbiamo discusso in tavoli di lavoro dedicati ai temi della cura da dedicare ai più giovani e ai più fragili, della conservazione e del recupero del patrimonio artistico e culturale danneggiato o messo a rischio dal conflitto, del possibile rilancio – a tempo debito, speriamo non troppo in là – del turismo ucraino.

C’è poi un secondo aspetto – che sapevamo scivoloso – che riguarda il sostegno della difesa all’aggressione in corso. Non ha molta importanza a mio parere disquisire oggi sul significato autentico del termine resistenza (lo è? non lo è?) ma serve osservare con attenzione l’evoluzione del conflitto sul campo dal 24 febbraio ad oggi.

Onestà intellettuale vuole che ci si dica apertamente che il fatto che oggi un governo sia operativo a Kiev e che l’invasione russa impatti solo sul 25% del territorio enon sulla sua interezza deriva dall’opposizione – anche militare – che l’esercito russo si è trovato ad affrontare.
Detto questo, e dato per scontato che Putin non ha nessuna intenzione di fermarsi, il vero interrogativo è quello legato a quale sia la nuova fase del conflitto verso la quale intendiamo muoverci. Crediamo e riteniamo auspicabile davvero la controffensiva autunnale delle forze ucraine (per riconquistare il Dombass? per andare oltre? per sconfiggere la Russia e vendicarsi nei confronti di Putin?) o invece vogliamo investire maggiori energie per il raggiungimento nel minor  tempo possibile di un “cessate il fuoco” reale, a partire dall’invasore, che è condizione minima sulla quale costruire le strategie per i successivi, auspicabili, dialoghi di pace?
Costruire la pace quindi, mettendo al centro la pace. Per muoversi in questa direzione serve un surplus di elaborazione politica, per nulla semplice e piena di ostacoli, che è quella che permette di individuare strade percorribili dal confronto non-violento anche quando questo sembra impossibile, perchè marginale e afono. Alla fantasia e all’immaginazione, oltre che all’impegno perseverante dei costruttori di pace (pacificatori, oltre che più pacifisti, ci siamo detti durante il viaggio) si è appellato Papa Francesco riflettendo su un suo possibile viaggio a Kiev e a Mosca.

Determinare le condizioni del sentiero che porta alla pace (con quali strumenti? dentro quali cornici di legittimazione internazionale?) e non al moltiplicarsi e all’inasprirsi dei confronti del combattimento.
Questa è la sfida più altache il Mean – e non solo il Mean – deve darsi in questo preciso momento, prima che si chiuda qualsiasi spiraglio e siano di nuovo gli arsenali, riassortiti nel corso dell’estate, a riempire il campo.

Sono rientrato da Kiev felice dell’esperienza
ma pessimista di fronte allo scenario della guerra. La strada della pace è strettissima.
Nel corso della preparazione del viaggio e poi in tante conversazioni nei giorni di Kiev ci siamo confrontati sullo strumento dei corpi civili di pace come opportunità di interposizione e risoluzione dei conflitti.

Nel 1995 Alexander Langer si prodigava in una battaglia presso il Parlamento Europeo per far votare l’istituzione di una compagine disarmata che potesse essere messa in campo per prevenire o ricomporre le tensioni tra Stati o all’interno degli Stati.
Una proposta visionaria che il politico verde articolò in una serie di testi al fine immagino di non potersi far accusare che
all’idea non corrispondesse una strutturazione sufficientemente concreta. Incardinato tra la dimensione europea e quella della Nazioni Unite; dotato inizialmente di 1.000 effettivi (400 professionisti e 600 volontari): doveva essere impegnato in opera di mediazione, costruzione di dialogo, riconciliazione, osservazione, analisi e inchiesta: aveva la necessità di trovare relazione e reciprocità con le forze di peacekeeping militare presenti nello stesso scenario. Le linee di finanziamento dovevano essere individuate in seno all’Unione Europea. Se a livello comunitario sono stati fatti pochi passi, impercettibili, in Italia qualche timida iniziativa ha preso vita nel 2014 grazie all’iniziativa parlamentare di Giulio Marcon che riuscì nell’annuale legge di bilancio a ottenere un finanziamento di 9 milioni “destinati alla formazione e alla sperimentazione della presenza di 500 giovani volontari da ipegnare in azioni di pace non governativa nelle aree di conflitto o a rischio di conflitto”. Un segno di attenzione e una prima sperimentazione che – collegata al Servizio Civile – che negli anni ha coinvolto circa 160 ragazzi ma che non è riuscita nemmeno a investire per intero tutti i fondi del primo stanziamento.

C’è quindi un problema organizzativo, con il progetto al margine dell’attenzione politica, unito a una più generale disattenzione a quegli interventi che non riguardino la dimensione militare (nello stesso periodo la sola Italia ha speso 190 miliardi di euro in armamenti) e che tentito di produrre un’alternativa alla risoluzione guerreggiata dei conflitti.
Serve tornare a ragionarci seriamente, trovando risorse adeguate e – ancora di più – alleanze sovranazionali che recuperino lo schema d’intervento pensato da Langer e lo elaborino per essere funzionale al contesto attuale, se possibile ancora più complesso, disarticolato e rischioso di quello degli anni ’90 attraversati dalle guerre balcaniche.

Proprio sull’asse Italia-Ucraina che vive oggi una nuova stagione di relazioni, dialogo, cooperazione protrebbe svilupparsi questo percorso di ri-progettazione e sviluppo dei corpi civili di pace. Trento e Leopoli sono le due candidate rimaste in lizza per essere capitali europee del volotnariato per il 2024. 
Quale migliore occasione per tentare insieme (attivando tutte le realtà che sul tema si impegnano e hanno maturato esperienza sul campo) il rilancio di un progetto che potrebbe ridare centralità operativa, energie concrete e competenze specifiche ai percorsi per la pace.
Ci proviamo?

Occuparsi della guerra è creare spazio per la pace.

Federico Zappini