C’è bisogno di più ascolti per capire

Lamar

Count Me Out di Kendrik Lamar è un pezzo dell’album Mr. Morale & the Big Steppers, è una canzone che ha bisogno di più ascolti per essere capita.

È il 12 luglio, sono le 22:00, accanto a noi, e tutto intorno fuori dal finestrino, ci segue un tramonto colorato e lento, che pare non voler terminare. È insolito che siano ancora così accese le tonalità del rosso e del giallo sul blu, a meno che tu non sia in viaggio e ti ritrovi a cavallo del cambio di fuso orario. La percezione è quella di un tramonto interminabile, come se sole e buio avessero deciso di inseguirti, quando nella realtà si tratta di un abile gioco di sincronia tra tempo e distanza. Non immediatamente comprensibile, inconsciamente ti senti leggermente impaurito. Affascinante.

Con Fondazione Arché, Paolo Dell’Oca e tutto il gruppo del progetto di azione Non-Violenta Mean siamo di rientro dopo 30 ore vissute a Kyiv, la capitale dell’Ucraina, uno stato aggredito in un tempo di guerra. Ci troviamo più o meno a Brno e mi sento confuso, indeciso su quali siano i pensieri da accettare e da rendere parte del mio racconto, su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Raro.

Ho bisogno di fare chiarezza perché quando rientreremo a casa, a Milano, tra circa 15 ore, mi verranno fatte domande, ci saranno attese che vanno soddisfatte, ma non sono certo di cosa potrò dire

La dogana

Siamo partiti nella tarda mattina di sabato, con un gruppo di 16 persone, che sono diventate 54 giunti a Medyka, dogana polacca al confine con l’Ucraina. Prima di allora avevo varcato il confine con l’Ucraina altre due volte durante questo periodo di guerra. Ero diretto a Leopoli e guidavo furgoni che trasportavano aiuti umanitari. Il passaggio della dogana (allora Budomierz) era stato più ansioso, ci avevano controllato i mezzi, ci avevano fatto aspettare molto tempo prima di accordarci il passaggio al confine. Avevano permesso alle giuste preoccupazioni di salire a galla e di lasciare spazio a quel pizzico di naturale angoscia quando si entra in uno stato in guerra. In quelle due occasioni, l’obiettivo era chiaro e la ragione della mia presenza ancora di più. Trasportavo aiuti umanitari, molto mirati e utili, per le donne e i bambini in fuga dalle bombe. La mia testa riusciva a elaborare pensieri e meccanismi deduttivi in modo lineare. Questa volta è diverso.

Il mio zaino è ridotto nelle dimensioni e ci sono solo vestiti, un computer e poco altro. Sto passando la dogana a piedi, è il mio corpo ad essere mezzo di trasporto. Evidentemente un corpo carico di intenzioni richiede meno ispezione, per questo in pochissimo tempo passiamo i controlli. Ci attende un autobus e il suo autista prima di partire fa un paio di richieste: togliere la localizzazione ai nostri cellulari ed evitare di pubblicare foto con luoghi riconoscibili in diretta. Anzi, sarebbe preferibile non pubblicare nulla. Qualcuno sordamente dice “per evitare che ci localizzino e ci bombardino”. Il messaggio è chiaro, forse un po’ eccessivo, ma stiamo andando pur sempre a Kyiv, non più Leopoli. La distanza tra le due città è di 8 ore in direzione della guerra, vissuta anche per le strade, non solo nella preoccupazione delle bombe dal cielo.

Domenica 10 luglio presso l’hotel dove erano alloggiati gli attivisti del MEAN durante il collegamento con le piazze italiane.

Kyiv

La periferia della Città mi imbarazza. Sono stato leggero e supponente a pensare che Kyiv fosse come Leopoli. I segni delle bombe si vedono in modo palese. Hanno bombardato un ospedale pediatrico. L’autista con la traduttrice ci indica a destra e sinistra dove guardare, dove porre l’occhio, ci segnalano con scrupolo quando la visuale si apre e permette di vedere la pancia sventrata di un palazzo di cemento. Lo faccio, ma non mi piace, sembra il tour dell’orrore. Giudico con superiorità questa situazione. Non è uno zoo, sono morte delle persone e ne sono fuggite altrettante per la paura di vedersi crollare la vita sopra la testa. D’un tratto mi viene in mente il percorso della memoria fatto ad Auschwitz: che sia la paura che la gente non capisca gli orrori della guerra a determinare questo approccio “turistico” verso gli scheletri dei bombardamenti? Oppure che un giorno tutti questi dolori e paure possano essere dimenticati se non adeguatamente testimoniati? Possibile. Sono costretto a sospendere il mio giudizio.

Arriviamo in hotel, inizialmente non ci viene fornita la posizione, sempre per quella storia del non essere localizzati. All’interno ci aspetta una stupenda accoglienza. Il MEAN ha organizzato una serata in cui circa 20 piazze italiane e un paio internazionali, connesse da remoto, comunicano messaggi di pace e di solidarietà nei confronti della società civile ucraina, presente fisicamente insieme a noi durante la cena. Mi chiedo se davvero siano interessati a questi messaggi o se possano pensare a quanto siano superficiali? Avranno bisogno più di aiuti concreti che di un messaggio simbolico di pace.

Siamo seduti e siamo noi 54 più una trentina di persone ucraine facenti parte di movimenti e associazioni di Kyiv. Sono entusiasta, non mi aspettavo così tanto interesse per la nostra solidarietà. Sì, perché noi con il MEAN e Arché siamo a Kyiv per trasmettere la nostra vicinanza, per affermare attraverso la nostra presenza che

una bomba caduta a Kyiv è una bomba caduta a Milano, Roma e Genova, è una bomba caduta in Europa. Che vogliamo la pace e la pace passa dalla non violenza, dal declino dello schema buono-cattivo.

Il decalogo del MEAN dice anche altro come “l’Ucraina non è il nostro palcoscenico”, “la nostra azione non arriva dall’alto ma è preparata, condivisa, discussa con la società civile ucraina” e “Andiamo a Kiev perché abbiamo deciso di non acconsentire alla guerra… la guerra alimenta lo schema binario amico-nemico…  Abbiamo deciso di uscire da questo schema e da questa logica”.

Il decalogo è stupendo, rileggendolo ora mi accorgo di molte cose che non ero riuscito a capire all’inizio. Anche perché ognuno arriva con le proprie idee dominanti, difficili da scardinare, siamo un gruppo di pacifisti, saranno sicuramente messaggi nobili, ma sono realmente condivisibili con chi vive la guerra tutti i giorni da 6 mesi? Mah. Inizio ad essere molto turbato dal gruppo in cui mi ritrovo, perché sento pensieri che giudico troppo naif: “le armi non sono la soluzione”, “gli ucraini dovrebbero richiedere la pace attraverso l’uso della non violenza”, “alziamo le mani e smettiamola di imbracciare le armi”. È così semplice? Io non saprei, in teoria sì, ma onestamente ora non credo.

Count me out, nella sua traduzione letterale significa “lasciatemi fuori o contatemi fuori”, ma nella canzone diventa molto più simile ad un mantra. La speranza è quella di poter scappare dalla complessità e dal dolore. Ma non credo si possa, alla fine bisogna ritornare dentro per riacquistare la fiducia con sé stessi, scendere a compromessi con ciò che ci dà fastidio.

We may not know which way to go
On this dark road

One of these lives, I’ma make things right
With the wrongs I’ve done, that’s one of you now

Wipe my ego, dodge my pride (and I’m trippin’ and fallin’)
Look myself in the mirror
Amityville, I ain’t seen nothin’ scarier

All’1:30 dopo due ore di bunker per un allarme bomba, entro in camera e dalla finestra sbircio la città nella notte. Poche luci ma in qualche modo mi ricorda Milano, sembra di vedere il grattacielo Velasca, e anche un po’ Vienna, è molto bella.

La mattina dopo andiamo in Municipio per incontrare le istituzioni di Kyiv e nel pomeriggio nel museo di storia civica della città. Kyiv è meravigliosa, ma porta con sé un velo di malinconia che non mi aspettavo. A Leopoli avevo sentito una città piena di spirito e voglia di ripartire, piena di giovani e famiglie. Kyiv non è Leopoli. Mi devo ricredere nuovamente, avevo convinzioni sbagliate.

I ringraziamenti

La stessa delegazione ucraina che ci accoglie in municipio il giorno dopo sembra aver ascoltato i nostri pensieri. Ci ringraziano per la solidarietà e per lo spirito “coraggioso” che ci ha spinto a raggiungere la città, nonostante l’insicurezza del momento. Lo dice il sindaco, numero due di Zelensky, spiegando come il nostro atto simbolico, la nostra presenza, permetta agli ucraini di non sentirsi soli. Mi rincuorano queste parole. Avevo paura che sarebbe apparsa fuori luogo la nostra presenza lì. In fin dei conti hanno ben altro da fare che proteggere e seguire un gruppo di manifestanti pacifisti.

Ci ringraziano perché i nostri stati hanno fornito loro le armi per difendersi, ci ringraziano perché queste relazioni e questi dialoghi sono una speranza per il futuro diplomatico del paese, ci ricordano che non si può chiedere ad una società civile di accettare un’invasione brutale armata senza ricorrere alla resistenza. Potrei andare avanti per molto a dirvi per cosa ringraziano e cosa no, cercando di mediare ogni singolo concetto: alcuni li accetterei ed altri li condannerei. Non riesco a mettere ordine.

Non so cosa significhi sentirsi impotenti mentre i propri affetti sono in pericolo e sotto attacco, non so cosa penserei se davvero vivessi la paura delle sirene tutti i giorni. Ho provato i bunker sotterranei un paio di volte, ed entrambe le volte sono stato infastidito dal dover perdere due ore di tempo, preoccupato che potesse essere una situazione molto pericolosa, indeciso se allarmare con più incisività chi non scendeva nel seminterrato o se emulare quei comportamenti impavidi.

In queste 30 ore avrei voluto ripetere molte volte durante i dialoghi con le persone del gruppo “contatemi fuori! non saprei cosa dire, non lo so!”.

Le statue della città sono protette dalle schegge di eventuali esplosioni.

È evidente che bagnarsi dell’emotività che guida un viaggio come questo ne determini il conseguente modificarsi dei propri pensieri, dei propri precetti “ideali”. Questo lo avevo messo in conto. Ma l’imprevisto è il “non vissuto”, capace di creare un cosmo di variabili non previste. Ho sentito spesso fare dei parallelismi con le guerre jugoslave, l’assedio di Sarajevo, la guerra in Bosnia ed Erzegovina, da chi aveva vissuto quei momenti e da quei discorsi sentivo un filo di comprensione in più che a me mancava. Ho studiato quei conflitti ma non li ho vissuti. Non basta sapere per capire tutto.

Ascolti

Come fare a compensare il non vissuto? Marianella Sclavi ha suggerito l’ascolto. Catturare ciò che ci viene detto senza la doverosa necessità di mediarlo attraverso le proprie convinzioni. Ascoltare più volte e in più modi quello che si sta vivendo. Nel momento in cui ho smesso di dover avere risposte, di dover ricondurre ogni singolo stimolo ad un atto di mediazione che permettesse alla mia testa di renderlo accettabile, ho iniziato ad ascoltare la complessità. Sono stato meglio, mi sono ritrovato e ho capito banalmente che non vi è un pensiero. Ci sono una moltitudine di paure che cercano di non perdere la speranza.

Sono passati 10 giorni dal mio rientro a Milano, avrò bisogno di tempo per mettere un po’ in fila le idee.

In questi 10 giorni mi infastidisce chi ha delle domande e ha già le sue risposte. C’è molta più complessità con cui bisogna fare i conti.

Mi chiedo quando gli ucraini avranno del tempo per poter ascoltare, liberi dalla paura e dai timori. Sarà un bel momento per ripartire.

I love when you count me out
I love when you count me out
I love when you count me out
I love when you count me out 

Jacopo Palmieri

Altri articoli