Abbiamo incontrato la guerra e le sue conseguenze..senza doverla nemmeno pronunciare.

di  Paolo Della Rocca
MOVI – Movimento di Volontariato Italiano

《Mi metto a scrivere attorno alle 14.30 di sabato 14, dopo aver risolto il problema più grosso… il sonno? i bisogni primari?…No, la connessione internet. Eh sì… tra famigliari che attendono notizie, il gruppo a Kiev che attende di sapere quando arriviamo…e la mia incazzatura per tutti i preparativi accurati pre-partenza inutili; ho una scheda sim albanese comprata due anni fa in vacanza che è ottima per l’area dell’est perché ha i costi più bassi dei nostri ma non ho caricato credito sufficiente per fare roaming e appena dò l’hotspot ai miei due compagni di viaggio si prosciuga in un istante; ma ho anche una scheda Tim che – mi dicono – ti offre un estensione delle condizioni del contratto nazionale in Ucraina, ma niente… non funziona… . Sto già litigando con Angie grazie al wi-fi che ho chiesto con molto titubanza ad Anna, che per fortuna parla inglese, una ragazza ucraina seduta accanto a noi.
Dopo un po’ di tira e molla Angie (il bot di assistenza di Tim) si sblocca dalle sue domande pre-impostate quando dopo qualche tentativo infruttuoso scrivo “voglio parlare con un operatore!!”… e in due mosse mi dà le indicazioni giuste e risolvo la situazione.
Dunque, quando mi metto a scrivere siamo tra Rivne e Novohrad e per colpa dei “maledetti” (ma anche… grazie!) gabbiani stiamo percorrendo la strada che ci separa da Kiev con un bus di linea scovato dopo una caccia affannata su internet per raggiungere il gruppo che viaggia con il transfert organizzato dal progetto MEAN. Dopo che il nostro comodo volo mattutino è stato cancellato e abbiamo ripiegato su un volo serale, che arriva a Cracovia alle 23.30.
Passiamo molte ore assieme con tante persone sconosciute, ad ogni sosta l’autista dà le informazioni tecniche, che puntualmente non capiamo ma che vedo sono ascoltate con attenzione da tutti, quasi a sapere che non sono sempre le stesse… che ci può essere un imprevisto, un cambio di programma da cogliere al volo. Qua è così. Siamo isolati da tutto seppur in mezzo a tanta gente. Non provo nemmeno con l’inglese… con l’autista a mala a pena ci scambiamo informazioni sui tempi e gli orari aiutati dall’italica gestualità.
Ci metto un po’ a chiedere aiuto… mi sembra quasi di disturbare… chissà da dove vengono e per quale ragione tornano a Kiev, quali sono le loro storie… se hanno qualche familiare vittima della guerra o al fronte. Sono praticamente tutte donne, alcune con figli (anche tre) al seguito che occupano anche due sedili (sono piccoli) per dormire il più comodi possibile. Al terminal di Balice, dopo aver chiesto un po’ preoccupati a numerosi autisti che passano con il loro pullman, finalmente troviamo il nostro; saliamo in silenzio, è mezzanotte e mezza. Cerchiamo posto, ce ne sono di liberi, una ragazza addirittura rifiuta di concederci il suo accanto, che era libero; passiamo oltre… non è il caso ed il momento di questionare. Sono tutti ucraini… lo scopro dopo guardando i passaporti che porgono alle guardie di frontiera, prima polacca e poi ucraina. Ovviamente quando sale la guardia, entrambe donne, pronuncia frasi incomprensibili con in mezzo un “passport”. Ci basta, tutto chiaro. Consegnamo a ciascuna guardia, che controlla la corrispondenza tra il volto e la foto: li raccoglie assieme e se li porta via per il controllo e timbro. La polacca rimprovera una mamma perché manca qualche documento del figlio piccolo, lei fruga velocemente tra la borsa, con aria deferente consegna il foglio e tira un sospiro di sollievo incrociando lo sguardo comprensivo di un’altra mamma. Improponibile abitudine in Italia quella che riguarda la restituzione: arriva l’autista con il malloppo di passaporti, comincia a distribuire… no… è una perdita di tempo… bisogna andare… li consegna alla prima passeggera davanti invitandola a consegnarli lei a tutti. Così a tutti e due i controlli. Improponibile in Italia con la privacy che ci “protegge”. Però il mio cognome lo hanno pronunciato bene entrambe le “assistenti”.
Sarà che io vedo solo le loro ma mi sembrano facce stanche, sarà solo il sonno? Magari anche la mia è così. Comunque lo stare seduti in pullman non aiuta a creare dialogo. Ci pensa la “maledetta” connessione… ma non subito… : dalle parti di Leopoli avviene un cambio di pullman in una sorta di parcheggio scambiatore per varie direzioni. E con quelli che salgono sul nostro è come se ci conoscessimo già, abbiamo alle spalle un viaggio assieme… . Chiedo ad Anna, dopo aver tentennato almeno 10 minuti, “five minutes of your wi-fi for recharge my sim card” e lei “no problem”, e io “I don’t know if you spend money for me” e lei si schernisce con le mani “no problem”. Che bello… dai che ce la faccio a connettermi con il resto del mondo. E da fornitrice di hotspot Anna diventa anche guida per l’itinerario, per i nomi delle città che attraversiamo, traduttrice delle comunicazioni dell’autista. Da quel momento (è dipeso da me o da qualcos’altro?) non c’è solo Anna… ci sono due mamme che incrocio alla toilette in una sosta, bisogna pagare 6 Grivnie (ca 16 cent di €) che non ho… ho 10 €cent… oppure 20€… . Non posso eludere la custode… perché è lei che concede agli “utilizzatori” di prendersi un tot di strappi di carta igienica prima di dirigersi al bagno. Una delle mamme si offre di pagare per me… e anche per i mei due compagni di viaggio: rifiuto educatamente, insiste, accetto, insiste per gli altri due, resisto dicendo che loro sono già andati. È vero, io ero l’ultimo… perché ad ogni sosta anziché del bagno andavo in cerca del wi-fi libero per fare sta maledetta ricarica. Quasi a sottolineare la stranezza di questo razionamento della carta igienica l’altra mamma commenta sorridendo, ma credo di aver colto un lieve imbarazzo di fronte ad uno “straniero” con cui non si vorrebbe fare brutta figura: “it’s the ucranian system”. Ringrazio, assolvo al bisogno e ormai lanciato mi infilo in un negozietto di alimentari per soddisfare l’altro bisogno… . Trovo l’autista, lo guardo, lo indico come a dire “io sono con te… non andartene senza di me”, lui mi chiede “Italiano”? (eccallà… come 007 farei davvero schifo), “yes”, “Napule?” (si proprio “Napule”!) “no Venezia”, “Aaahhh!!!…” (dice frasi incomprensibili accompagnate dal gesto del remo sulla gondola con in mezzo un “taxi”), “yes!” Rispondo ridendo. Praticamente amici.
Si riparte, ho preso un dolcetto per regalarlo alla mamma che mi ha pagato la toilette, non mi alzo durante il viaggio, non lo fa nessuno, continuo a rispettare sacralmente il silenzio e la condotta composta di questo viaggio (unico gesto scomposto una donna che cerca di uccidere una zanzara), penso di offrirglielo alla fermata successiva” ma è quella a cui scende lei, di corsa. Nemmeno la possibilità di salutarla. Credo che il pullman sia in ritardo anche per i loro canoni… . Qualche passeggera parla con l’autista ad alta voce, e non è per fargli un complimento. Lui nemmeno risponde. L’autista è l’uomo alfa in questo assortito campionario umano.
Nell’ultima parte del viaggio si sciolgono gli ultimi imbarazzi, Anna ci chiede come mai andiamo a Kiev, glie lo spiego, le mostro le foto che arrivano copiose nella chat durante lo svolgimento della preghiera. Si stupisce, approva. Mi stupisce ad un certo punto la sua domanda: “ma non avete paura?” Era l’ultima domanda che mi aspettavo, me lo sarei aspettato ma in Italia, non qua… . Eppure… . Vorrei proporle anche una riflessione sul rischio percepito e il rischio reale ma mi sembra troppo, poi l’inglese potrebbe tradirmi… le dico solo “è la quarta volta che vengo, la prima volta un po’ si… ma poi non più”. Penso che in fondo è quello che hanno imparato a fare anche loro, per continuare a vivere. Mi racconta di lei che sta tornando a casa dopo tre mesi in Polonia dove aveva trovato un lavoro occasionale, abita in una città vicina a Kiev e torna a casa. Praticamente il suo viaggio durerà 30 ore in totale. E io che mi lamentavo… .
In 17 ore di viaggio tutto questo si svolge nell’arco di un’oretta, ma mi sembra la cosa più importante da raccontare. Le altre cose le ho già vissute e fotografate: la povertà che vediamo attraversando i centri abitati ad ogni fermata nelle stazioni degli autobus, l’atmosfera, i mausolei fotografici dei compaesani morti in guerra, i militari che girano, anzi… poveri cristi con l’uniforme. Lungo il percorso vedo però meno posti di blocco e meno protezioni delle altre volte. Chissà…
Abbiamo incontrato la guerra e le sue conseguenze… senza doverla nemmeno pronunciare》.

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